Google e i big player dell’informazione: storia di una relazione complicata. È recente la notizia – riportata da Reuters – che il New York Times ha stretto un accordo con il colosso di Mountain View, che corrisponderà all’editore della testata circa 100 milioni di dollari in tre anni per pubblicare i contenuti del giornale sulle sue piattaforme.
Secondo gli addetti ai lavori, Alphabet (compagnia che controlla Google) spingerà molto sulla propria sezione News, che finisce spesso sotto accusa per carenze di controlli attendibili e diffusione di fake news. L’accordo tra il New York Times e Alphabet prevede la collaborazione per Google News Showcase, un programma che pagherà gli editori, affinché pubblichino i loro contenuti di G News che includa (stando a fonti non confermate) contenuti di qualità e certificati.
Nello scorso mese di febbraio, lo stesso Times aveva annunciato che avrebbe ampliato i propri accordi con Alphabet e Google, nei quali già rientravano abbonamenti al giornale e distribuzione in digitale da Android. Al momento non sono arrivate conferme da parte dei diretti interessati, ma la notizia diffusa da Reuters offre più di uno spunto di riflessione, soprattutto in relazione allo stato dell’arte in Italia.
Partiamo da alcune considerazioni sulla cifra, abbastanza ridotta, se si pensa che il NY Times ha incassato, solo l’anno scorso, ricavi per 2,31 miliardi di dollari: un numero raggiunto perché la testata non ha rinunciato a monetizzare soprattutto tramite pubblicità e sottoscrizioni e punta ai 15 milioni di abbonati entro il 2027.
Informazione su internet e pubblicità
Le modalità legate alla fruizione dell’informazione attraverso internet hanno scardinato le vecchie logiche di mercato, legate alle copie vendute e alla pubblicità. Ci sono troppe notizie e troppe sono gratuite, e il fatto che si debba passare da “intermediari” come Facebook, Instagram o Twitter, ha avuto un impatto importante sul mondo della pubblicità. La maggior parte dei ricavi, infatti, va a questi colossi e i media tradizionali “arrancano”.
I grandi giornali hanno chiesto a lungo di essere compensati, ma Google e i social network continuano a beneficiare dei loro prodotti pubblicati sulle varie piattaforme. L’accordo tra Big G e il New York Times include anche marketing, distribuzione e sottoscrizioni.
Certo, 100 milioni di dollari in tre anni potrebbero sembrare pochi (soprattutto con quei 2,31 miliardi fatturati nel 2022, di cui abbiamo già parlato), ma sono perfettamente in linea con quanto, ad esempio, percepisce da Google la News Corp di Rupert Murdoch (che pubblica, oltre al Wall Street Journal, il New York Post, Barron’s e numerosi giornali nel Regno Unito e in Australia).
Cosa succede in Europa?
Un negoziato simile è in corso in Europa, dove però è possibile un eventuale intervento dell’antitrust, qualora le testate non ottenessero accordi soddisfacenti. E in Italia?
Facciamo prima un passo indietro, tornando oltreoceano, dove abbiamo Google e il New York Times, con un accordo che, sì, è una “ricompensa”, ma di fatto “vende” anche alcuni servizi, aiutando il gruppo editoriale a piazzare più abbonamenti, ma anche strumenti di intelligenza artificiale per migliorare le attività di marketing. Condizioni sicuramente vantaggiose per il quotidiano e per dare vita a un’alleanza di tipo commerciale e tecnologico.
Guardando al contesto europeo, però, troviamo una situazione differente. Gli editori italiani non sembrano ancora interessati a percorrere la stessa strada, sebbene abbiano interesse a ottenere un compenso equo per tutti i contenuti giornalistici digitali (dagli articoli ai podcast). A livello normativo, la direttiva UE sul copyright, il regolamento che la recepisce nel nostro Paese e il regolamento attuativo dell’AGCOM, parlano chiaro: gli editori hanno diritto a una remunerazione adeguata. L’aspetto che interessa di più è quello economico.
Gli editori, dunque, chiedono conto a Google del potere che ha assunto nel mercato della raccolta pubblicitaria. Il cuore di questa trattativa “nostrana” sono i dati, con l’AGCOM che impone a Big G la massima condivisione sul traffico internet e sui ricavi. Dato che Google, però, non ha sempre molta voglia di diffondere le proprie informazioni, potrebbe anche trovare una valida “alternativa” nel riconoscimento di un equo compenso. Sarà davvero così? Non resta che attendere i prossimi sviluppi.